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Immagine del redattoreC1V Press

Dalla provincia di Frosinone alla provincia di Taranto: fenomenologia di due delitti.


Incontro con il criminologo Romolo Giovanni Capuano che ci parla di due recenti casi di cronaca nera che hanno scosso l'opinione pubblica.


Nel mese di aprile gli organi di stampa hanno diffuso la notizia di due delitti tanto violenti quanto diversi nella fenomenologia del comportamento omicida: due casi di cronaca nera che sono subito saliti alla ribalta giornalistica e che hanno scosso fortemente l'opinione pubblica: il caso della madre che uccide il piccolo Gabriel di soli due anni a Piedimonte San Germano, un piccolo centro in provincia di Frosinone, e il "branco di Manduria", in provincia di Taranto, che dirige la propria furia omicida verso un pensionato con alle spalle una storia di emarginazione e di problemi psichici. Per parlare di questi argomenti abbiamo invitato in redazione un autore della casa editrice C1V Edizioni, che di recente ha pubblicato proprio uno studio articolato in campo criminologico: il dottor Romolo Giovanni Capuano, sociologo, criminologo e saggista al quale abbiamo rivolto alcune domande per tentare di capire cosa spinge una giovane madre, e un gruppo di ragazzi adolescenti, a commettere gesta tanto efferate nei confronti di vittime inermi e indifese.


Benvenuto in C1V News dott. Romolo Capuano: comincerei dal recente caso di cronaca del bambino ucciso dalla madre nella provincia di Frosinone. Basta fare, purtroppo, una breve ricerca in internet per trovare non pochi casi simili (ognuno, naturalmente, da analizzare anche singolarmente): tutti ricordiamo, per esempio, il "Delitto di Cogne" che risale a vari anni fa. Il 17 aprile scorso ha perso la vita il piccolo Gabriel di soli due anni. Dopo varie versioni e menzogne (come l'investimento di cui aveva riferito la donna) che hanno visto coinvolto, in un primo momento, anche il padre di Gabriel, la mamma del bambino ha confessato di essere stata lei ad ucciderlo, stringendolo con violenza al collo. Non poche testate giornalistiche parlano di "raptus".

Nel suo recente libro "Delitti", raptus, follia e misteri. Dalla realtà alla cronaca" (Collana Scientia et Causa, diretta da Armando De Vincentiis, C1V Edizioni) si è occupato anche di questi argomenti facendo spesso luce, per così dire, nel tragitto che va dalla realtà alla cronaca (o viceversa, in sede di ricostruzione dei fatti): ecco, è possibile delineare il percorso o i vari percorsi psicologici che inducono una donna, una madre a uccidere il proprio figlio?



«Grazie e ben trovati. Iniziamo con il dire che per quanto possano apparire “innaturali”, vi sono vari motivi alla base di comportamenti così efferati. La fenomenologia è complessa e articolata. Ecco alcune tipologie: nei casi di neonaticidio, possiamo essere in presenza di depressione post-partum o psicosi puerperale, quindi di comportamenti psicopatologici che interessano la psichiatria. In altri casi, si può essere in presenza del cosiddetto “Complesso di Medea”: in altre parole, la madre uccide il figlio (o i figli) per vendicarsi del coniuge o di altri familiari. Questo può accadere, per esempio, quando la moglie si sente tradita, umiliata o abbandonata dal marito e si rivale sui figli.

La morte di un figlio può, poi, essere la conseguenza di un lungo periodo di abusi, maltrattamenti e incuria nei confronti del piccolo. Qui si va dalla violenza fisica ripetuta, all’abuso sessuale, alla trascuratezza nell’ambito dell’alimentazione, dell’igiene, della protezione. Da segnalare anche la cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura” in cui la madre causa intenzionalmente patologie al figlio per attirare l’attenzione su di sé. Il figlicidio può poi essere “altruistico” (per così dire) quando la madre uccide il figlio e poi si suicida perché intende “salvare” il piccolo dalle sofferenze che avrebbe se continuasse a vivere (omicidio compassionevole): oppure può avere come causa il fatto che il figlio è indesiderato perché avuto troppo presto o contro la propria volontà. Qui l’omicidio può essere causato da un senso di inadeguatezza nell’interpretazione del ruolo materno, soprattutto se questo è assunto in età precoce. L’omicidio del figlio, infine, può essere conseguenza dell’appartenenza a subculture violente in cui i figli rimangono uccisi nell’ambito di dinamiche aggressive e conflittuali più generali».


Abbiamo quindi varie tipologie comportamentali e psichiatriche dietro a questi delitti che poi andrebbero presi in esame (ovviamente) anche singolarmente per una maggiore specificità del caso. Sempre rimanendo "sul pezzo", come si dice, e sulla recente cronaca nera, il 23 aprile scorso è venuto a mancare Antonio Cosimo Stano, un pensionato di 66 anni che viveva da solo in un appartamento a Manduria nella provincia di Taranto. Ucciso da una banda di giovani criminali che lo avevano preso "di mira" (per così dire) tempo prima che accadesse il fatto. Gli organi di stampa riferiscono che la vittima aveva già avvertito le forze dell'ordine per essere oggetto di ripetute aggressioni, vessazioni e percosse gravi. Le testate giornalistiche parlano anche dell'esistenza di una denuncia scritta firmata da alcuni residenti della stessa via in cui abitava il pensionato (anche da parte del parroco della chiesa di San Giovanni Bosco). In questo caso abbiamo il branco che agisce sotto influenza collettiva in un trasporto criminale omicida. E si è parlato nuovamente di "raptus" per questo delitto assurdo. Cosa spinge dei ragazzi giovani (la maggioranza di essi minorenni) a compiere gesta simili, come si muove il branco e quale impulso porta a scagliarsi con tanta violenza contro una persona tanto inerme quanto inoffensiva e indifesa?


«La criminologia del branco risponde a una logica di diffusione della responsabilità per cui in gruppo è più facile “lasciarsi andare” e perdere ogni inibizione (come accade, per esempio, nei casi di stupro di gruppo). Prevale la norma di gruppo che impone il rispetto di standard di emulazione che non sempre corrispondono agli standard di comportamento individuali. In un gruppo, per esempio, è più importante mostrare di essere all’altezza, in gamba, essere “tosti” come gli altri, invece che provare compassione per la vita di un essere marginale come un senza tetto o un alcolizzato. L’essere marginale, anzi, diventa il banco di prova del proprio coraggio di gruppo e l’identità collettiva stravolge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, interpretando questi valori secondo criteri particolari.

Emerge, spesso, poi, il ruolo del leader che detta inflessibilmente le linee guida del comportamento del gruppo cui non è possibile obiettare, pena l’espulsione dal gruppo stesso. Anche in questo caso, è decisiva l’appartenenza a subculture delinquenziali in cui la norma violenta è la più diffusa e quella più adoperata per dirimere le questioni della realtà. In entrambi i casi, comunque, – figlicidio e branco – non è mai possibile generalizzare e rinchiudere in caselle precostituite. Bisognerà, di volta in volta, analizzare le circostanze, il contesto, la personalità individuale dei protagonisti. I criminologi televisivi, invece, tendono a raggruppare in caselle perché non conoscono il caso singolo, se non secondo la mediazione dei media (mi si passi il calembour), ed è più facile ricorrere a teorie e tipologie predefinite che cercare di approfondire. Naturalmente, l’approfondimento è spesso impedito dai ritmi e dalle esigenze della televisione che chiede anche a esperti, di sicura competenza, di esprimere giudizi e opinioni nello spazio di uno spot commerciale, favorendo la banalità e la generalizzazione. Purtroppo, tali generalizzazioni precipitano poi nel senso comune dei telespettatori che diventano così il bacino di raccolta di tali cascami pseudoscientifici, in realtà frutto di esigenze televisive di spettacolarizzazione e sensazionalismo».

In casi del genere, infatti, sarebbe più corretto, da parte dei media televisivi, fornire un'informazione scientifica più approfondita e dettagliata, cercando di evitare generalizzazioni e semplificazioni qualunquiste che prestano il fianco a letture dozzinali e non aderenti al reale. In alcuni talk show abbiamo spesso un palinsesto interno (quindi non di rete, ma di programma) che spazia dalla cronaca alla rubrica di varietà e il tempo per far intervenire l'esperto si riduce a pochi minuti (soprattutto se il programma televisivo prevede un confronto tra opposti) magari anche interrotti, come diceva lei prima, da spot pubblicitari. Argomenti tanto importanti andrebbero approfonditi, probabilmente, all'interno di programmi specifici di divulgazione scientifica dove l'addetto ai lavori possa avere il tempo a disposizione per esporre con correttezza e specificità gli argomenti per cui è stato invitato a intervenire. Grazie, dott. Romolo Capuano.



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